KORŠUNOVAS A ROMA. LA REGINA, IL SERPENTE E L’INFERNO DEI RIFUGIATI
Nell’ambito della Decentralised Academy dell’Union des Théâtres de l’Europe (UTE), il regista lituano Oskaras Koršunovas ha diretto una masterclass per giovani attori professionisti, organizzata dal Teatro di Roma in collaborazione con l’Ambasciata Lituana a Roma (2-12 marzo 2017), con una dimostrazione aperta a partire da “Charges (The Supplicants)” di Elfriede Jelinek. Un racconto dall’interno del laboratorio.
È uno smagliante giorno di prima primavera a Roma, nemmeno una nuvola in cielo; un vento teso ma dolce passa attraverso l’ex complesso industriale di fronte al Gazometro. In un sabato pomeriggio, il Teatro India è silenzioso come una cattedrale deserta sulle sponde del fiume Tevere, sparso di brillanti raggi di sole.
Al mio arrivo, un gruppo di giovani siede a un tavolo di legno tra le verdi siepi. Un tecnico trascina un flight case lungo il grande cortile bianco di ghiaia, si guarda intorno, lascia la cassa nel centro, come la carcassa di un animale catturato dopo una lunga caccia.
È l’ultimo giorno di prove. Dieci studenti della Scuola di Alta Formazione del Teatro di Roma, insieme a sei colleghi da cinque diversi paesi europei inviati dall’UTE, aspettando Oskaras Koršunovas, di ritorno dalla pausa pranzo. Il regista lituano – invitato a tenere una masterclass nel contesto del network programme Conflict Zones, co-finanziato da Europa Creativa – ha scelto di lavorare sul testo di Elfriede Jelinek “Charges (The Supplicants)”, nella traduzione inglese di Gitta Honegger.
Le porte di un intenso laboratorio si sono aperte domenica 12 marzo per una presentazione itinerante che ha accompagnato il pubblico all’interno e tutto intorno al Teatro India.
Il giorno prima, ho seguito il gruppo nella prima e unica filata dell’intero viaggio. I giovani attori siedono nello studio del Teatro India nel sole del pomeriggio, riesco a cogliere l’italiano e un po’ di portoghese e di greco. Koršunovas entra e resta in silenzio per un lungo minuto, prima di cominciare a riassumere la lista delle diciotto scene che marcheranno il percorso di questo viaggio attraverso l’”Inferno Europeo”.
I titoli delle scene formano un mazzo strano e variegato di parole chiave, come “specchio”, “la guerra nel bagno”, “la nave”, “maschere”, “la fiaba”, “la mucca Europea”.
“La struttura c’è”, conclude Koršunovas, “ora percorreremo tutti i collegamenti, non preoccupatevi: tutti i problemi sono solo nella vostra testa”.
Parlando con qualcuno degli attori, vengo a conoscenza di come si sono svolti i primi giorni della masterclass, quando il regista li ha spinti attraverso una grande quantità di input psicologici e lunghi discorsi sull’identità politica e la crisi dei rifugiati.
Ora l’intero materiale sta per prendere la forma di una catena di performance: il pubblico verrà guidato da un “Virgilio” attraverso l’intera area intorno al teatro, confrontando da diverse prospettive i flussi dei migranti e la responsabilità europea, strisciando come un “serpente” di stazione in stazione.
“Egle, La Regina dei Serpenti” è infatti il titolo del progetto – già presentato lo scorso autunno al 13esimo Festival Internazionale Sirenos a Vilnius e ora ricostruito su un altro gruppo di performer – e proviene da una fiaba tradizionale lituana, stavolta narrata da un’attrice che indossa il burqa, che racconta l’origine di cinque alberi: quercia, frassino, betulla, pioppo e abete (in lituano, “egle”).
Egle è il nome di una giovane ragazza che accetta di essere data in sposa al Re dei Serpenti; con un trucco, i fratelli di Egle uccideranno il Serpente (che nel frattempo è un mago umano, bello e gentile) e ciò porterà Egle a espiare il crimine di aver rivelato il segreto, trasformando se stessa e i suoi figli in alberi. La morale di questa favola è che ciò che arriva dal Mare resta nel Mare e non sarà mai accettato da ciò che cresce e abita sulla Terra; e viceversa.
Koršunovas usa questa fola popolare come metafora per l’Inferno dei rifugiati.
“Siamo vivi, siamo vivi. La cosa più importante è che viviamo e difficilmente è più di questo una volta lasciata la sacra madre terra. Nessuno guarda giù con misericordia al nostro corteo, ma tutti volgono giù lo sguardo a noi. Siamo fuggiti, condannati da nessuna corte del mondo, condannati da tutti, lì e qui”.
Queste sono le prime righe del testo di Jelinek, gridate dall’intero gruppo, che siede su una freccia di sedie disposta nel nuovo palco all’aperto del Teatro India. I performer indossano strane e coloratissime maschere (come un pollo, un diavolo, un coniglio, un clown o un teschio); la folla si disperderà, spaventata da un giovane in abito blu, che apparentemente cercava di rassicurarli. Poi, il viaggio comincia.
Una coppia di poliziotti in passamontagna nero che insegue un rabbioso Arlecchino per tutto il cortile sarà una sorta di fil rouge per far tenere gli atti di persecuzione e xenofobia nella mente degli spettatori. E però il cuore di questo progetto sta nella sua varietà, nei toni e negli stili contrastanti delle singole performance, spinte oltre il testo di Jelinek e dentro l’improvvisazione.Un’ironia cinica, ad esempio, emerge con evidenza nella scena della “Fiera dell’Odio”, in cui il pubblico viene fornito di pistole e invitato a sparare a diversi “campioni di umanità/spazzatura”: un comunista, un omosessuale, un “negro” o un cinese; e così per la scena della chiesa, dove un placido prete esalta l’attacco terroristico di Utøya incitando il pubblico a gridare “Heil, Breivik!”.
C’è invece qualcosa di più crudele nel modo in cui lo stesso prete celebra il matrimonio tra gli spettatori e la “mucca europea” – riferimento alla giovenca ingravidata e rapita da Zeus nel mito di fondazione greco di Europa – , e risuona nella scena del corridoio in cui Egle vaga tra la folla in cerca di un Dio, di un abbraccio, di un bacio.
Come quasi ogni testo di Jelinek, “The Supplicants” si presenta come un intimidatorio diluvio di parole, senza personaggi o battute, e solo raramente un punto e a capo. Nella produzione di Hermann Schmidt-Rahmer alla Schauspielhaus di Bochum, nel 2016, gli spettatori erano sopraffatti da quelle parole, lanciate dal palco alla platea da sette attori e attrici.
Koršunovas tenta una nuova via, attraversando il testo e sorpassandolo, ritagliando le immagini, cucendole su un gruppo internazionale di attori e invitando il pubblico a partecipare. Una forma perfetta e una scenografia rifinita non sembrano essere l’obiettivo di questo progetto, che è piuttosto servito come momento di discussione sulle opportunità di una nuova politica della performance art. Approfittando qua e là del certo successo di uno stratagemma come l’esplicita violenza fisica e verbale, l’operazione conserva la propria natura: il risultato di una sessione di training sulla recitazione, che crea un crudele parco giochi dove mettere in discussione l’attenzione a certe preoccupanti derive come indifferenza e superficialità.
“Siamo arrivati ma non siamo affatto qui”.
Queste parole fanno eco nella nostra mente durante l’ultima performance, dove vengono proiettati orribili filmati dell’Africa che muore di fame – e non senza un accenno ai profughi siriani: il pubblico è invitato a sedere in platea, unendosi a un attore bagnato da una luce ambrata.
Tenendo un inquietante ghigno sul volto, divora popcorn.
Published on 15 March 2017 (Article originally written in Italian)