La ricerca di un’alternativa
Il pavimento è inondato da cinque centimetri d’acqua. Una montagna multicolore campeggia al centro del palco. Un cumulo di vestiti sta per un cumulo di corpi. Questa è l’immagine di apertura di Lampedusa, la pièce di Anders Lustgarten alla sua prima tedesca diretta da Olaf Kröck.
Stefano è un pescatore siciliano che, da quando i barconi hanno cominciato ad arrivare sulla spiaggia della piccola isola, è incaricato di “pescare” i sopravvissuti terrorizzati o i loro corpi affogati. Denise è una esattrice per una compagnia di assicurazioni di Leeds. A unirli – gli attori posizionati a due lati del palco e i personaggi separati da centinaia di chilometri e da un vissuto differente – non è direttamente la crisi dei rifugiati, piuttosto ciò che questa tragedia rappresenta: il senso della speranza che lotta contro la sparizione.
Nel programmare il mese tematico The Own & The Foreign, la Schauspielhaus Bochum ha messo a punto alcune vincenti giustapposizioni, come quella tra Lampedusa e The Suppliants / Appendix / Coda / Epilogue grounded di Elfriede Jelinek, una pièce in quattro episodi che riflette sulla crisi dei rifugiati con rigoroso metodo analitico, tipico del Premio Nobel austriaco.
Prendendo il titolo dall’omonima tragedia di Eschilo in cui le Danaidi cercano asilo ad Argo, The Suppliants è un’invettiva acidamente ironica contro l’attuale politica di asilo europea, che mette insieme fatti, numeri e statuti morali per creare un post-drammatico golem del linguaggio. In presenza di un testo così stratificato e verboso, pieno di dati, dettagli e doppi sensi, è indubbiamente difficile trovare spazio per una rilevante idea di messinscena. Nondimeno, la regia di Hermann Schmidt-Rahmer e la scenografia di Thilo Reuter – una concava mappa delle rotte dei rifugiati dalla quale piove un diluvio di bambolotti di plastica – arricchita da schermi e videoproiezioni, riescono a mantenere la scena ferma ma viva. Al contrario di quella di Lustgarten, l’architettura del pensiero di Jelinek non ha bisogno di personaggi: gli attori, benché operati come marionette e casse di risonanza, riescono a restituire la potenza del testo attraverso forsennate interazioni e assurdi costumi (disegnati da Michael Sieberock-Serafimowitsch).
Può essere interessante confrontare le parole dette da Schmidt-Rahmer alla round-table del Cafè Europa e un estratto da un’intervista a Jelinek: uno ha detto che “il teatro deve parlare di ciò che non sappiamo come gestire”, l’altra: “Io costringo il linguaggio a dire la verità anche contro la sua stessa volontà, un tipo di verità che è presente comunque nel linguaggio; laddove il linguaggio sarebbe aperto a mentirci, io glielo proibisco”. Come in ogni forma di teatro politico che si rispetti, dal punto di vista sia dell’autrice che del regista il corto circuito sembra essere completato dal pubblico, che è forzato a considerare finanche le prospettive più impopolari.
Da un punto di vista distorto dall’eurocentrismo, le vite dei migranti potrebbero davvero valere non più di una pila di bambole senza vita, o di un cumulo di stracci abbandonati.
Così recita una battuta di Lampedusa: “I nostri gloriosi leader vogliono che i migranti affoghino, come un deterrente, come un avvertimento per gli altri. Se quegli uomini nei loro uffici sapessero da dove arriviamo, saprebbero che non smetteremo mai e poi mai”.
Alla tavola rotonda del Cafè Europa, Anders Lustgarten ha parlato dell’intricato e impopolare dibattito politico sul tema indicando una precisa causa: “L’assenza di una storia”. Per fronteggiare un tale bulimico flusso di informazioni e la conseguente strumentalizzazione dei media e dei partiti politici dovrebbe essere creata “una storia alternativa”, per rinvigorire “la possibilità di un’azione”, senza la quale la crescita di “una qualsiasi speranza diventa impossibile”.
Oltre che essere un drammaturgo e condurre corsi di teatro per detenuti, Lustgarten è impegnato nell’attivismo, una pratica che egli stesso definisce come “altamente orizzontale, che non crede nei leader”. Allora il suo Lampedusa può essere visto come un apologo sull’essenza dell’attivismo: entrambe le due personalità, molto diverse, camminano sul confine tra un impegno morale che proviene da una situazione di emergenza e la paura atavica che accompagna un’inaspettata responsabilità.
Stefano si scopre inaridito dall’inerzia con cui porta a termine il suo compito; l’incarico di Denise la pone in una posizione dominante e allo stesso tempo proprio quell’espressione di potere potrebbe condurla a una dissoluzione etica. Quasi inconsciamente, entrambi cercano una redenzione, uno soccorrendo la moglie di un sopravvissuto, l’altra scendendo a patti con un’annosa frattura nel rapporto con la madre malata.
Questo gioco di specchi segue una struttura rigida e crudele nel testo di Lustgarten – con i due personaggi che si scambiano uno sguardo solo alla fine – mentre la regia di Kröck costruisce un ponte invisibile tra Stefano e Denise. Anche se i loro percorsi non si incontrano davvero, i due condividono un repertorio di gesti disperati, sguazzando nell’acqua, pescando gli stracci galleggianti e persino scambiandosi un bacio. Il testo alterna il tono semplice ma profondo di Stefano con il marcato dialetto e la malcelata rabbia di Denise, dando ai due monologhi intrecciati un ritmo che gli attori – incorniciati in uno spazio ben illuminato ma immobile – non sempre sono in grado di risvegliare nella recitazione. D’altro canto, questa generale paralisi, rotta nelle scene finali, risuona nel più ampio discorso presentato dall’autore britannico: queste due personae sono in cerca di una storia alternativa.
La possibilità di azione richiede una responsabilità estrema, il ruolo attivo di un “io”, nei confronti della lontana realtà dell’ “estraneo”.
Published on 19 April 2016 (Article originally written in Italian)