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LA GENERAZIONE DELLA GIOIOSA CONSAPEVOLEZZA

Con la prima mondiale del Silver Surfer al Volx/Margareten, lo studio del Volkstheater Wien ha messo in scena un innovativo esperimento teatrale, in cui la parentesi tra millenni e surfisti d’argento trova la sua espressione in tutte le loro contraddizioni e sfaccettature appropriate, senza abbandonare l’atteggiamento critico verso la tecnologia intelligente.

Barbara Pálffy / Volkstheater

Ganaele Langlois è professoressa di Communication Studies alla York University. Il suo libro Meaning Machines in the Age of Social Media (Palgrave Macmillan, 2014) studia come il concetto stesso di significato sia stato riformato alla luce dell’interazione umano-computer. Stando a quanto scrive Langlois, nel processo di creazione di significato online l’umano è solo «una componente, ma non la forza motrice di questi sistemi». Un social networking site (come Facebook o Instagram) è basato su un’architettura software molto complessa, solo in parte attivata da noi e composta da una somma di oggetti tecnologici che possiede una propria capacità d’azione e che è in grado di influenzare, dare nuova forma e piegare al proprio volere gli attori umani.

Digital Natives è un progetto di networking realizzato dall’Union des Théâtres de l’Europe (UTE) con il supporto di Europa Creativa, che coinvolge il Volkstheater Wien, Schauspiel Köln, il Teatro Ungherese di Cluj, la Comédie de Reims e il National Theatre of Northern Greece. Alla fine di marzo 2019 Vienna è stata animata da una due giorni di eventi fatta di conferenze, discussioni, workshop e performance, tutte dedicate a esplorare il modo in cui vent’anni di tecnologie web interattive siano state in grado di determinare una nuova modalità di guardare la realtà e di vivere vite interconnesse. L’interazione digitale può di certo essere interpretata come un’opportunità nello scavare nuovi percorsi di creatività: tuttavia, se i rapporti sembrano non avere più limiti, come possiamo tracciare i confini tra una falsa realtà e una vera falsità? Sin dall’avvento dell’antropologia le scienze umane hanno dovuto fare i conti con l’importanza di uno specifico contesto, un sistema di convenzioni sociali e rituali comuni che davvero dà forma alla radice e alla logica di una comunità locale. Gli stessi concetti di “apertura” e “chiusura” possono essere compresi nella loro interezza solo misurando come quelle convenzioni e quei rituali accolgano o rifiutino una negoziazione con altri provenienti da culture differenti.

Se un tempo Internet era stato creato come un potente veicolo per lo scambio di dati e informazioni, il Web 2.0 – quelle piattaforme caratterizzate da un’alta interattività delle funzioni – hanno profondamente modificato le modalità usate dagli utenti di diverse comunità per comunicare tra loro. Non parliamo solo di un nuovo ordine e di un nuovo passo nel mescolare tradizioni sociali, ma anche di nuovi linguaggi e velocità in grado di ripensare le forme basiche della comunicazione tra generazioni.

Questa è la tematica principale di Silver Surfer, un progetto del Programma Giovani del Volkstheater, diretto da Constance Cauers e Malte Andritter, che ha visto la prima mondiale sabato 30 marzo al Volx/Margareten di Vienna.

Cinque adulti   e sei teenager si incontrano sullo stesso palco per discutere le proprie vite quotidiane, costruendo, strato dopo strato, un fitto discorso collettivo attorno alla “dieta digitale” dell’attuale società.

L’ampio palco bianco è circondato da sipari diafani, una sorta di limbo aperto tra due generazioni. Una vegetazione di leggii neri cresce nello spazio vuoto; ciascuno ha una luce a led che, come una moltitudine di smartphone, illumina i volti degli attori quando parlano. Tra rapidi resoconti di conversazioni con papà e mamma e veloci dialoghi attraverso i quali i nativi digitali muovono i primi passi in una storia d’amore, ogni battuta di questo testo così rimico e frizzante è indirizzata al pubblico.

Questo mostra quanto realmente disconnessi siamo quando ci lasciamo coinvolgere in una comunicazione virtuale. “Rapporti online”, “Quotidiana routine digitale”, “Assalto digitale” sono alcuni dei titoli che spezzano il testo in diverse scene; ma compaiono anche termini come “Foto di nudo”, “Porno”, “Darknet”, tutte riferite alla “metà oscura di Internet”. Perché il mondo virtuale è sempre specchio di quello reale, dove un viaggiatore disattento può smarrirsi facilmente.

Nello stringere contatti virtuali con il circolo sociale esterno, un punto nodale può allora essere una solida educazione, una forma di conoscenza che ci renda cauti e curiosi di fronte a come davvero appariamo agli occhi degli altri e a come possiamo comprendere e acquisire un controllo su nuovi sistemi di potere. Nel suo modello di “analisi del discorso”, Michel Foucault guardava al linguaggio e alle pratiche come al campo di battaglia dove è possibile opporre resistenza a una serie di strutture di potere. Secondo Langlois quella guerra oggi viene combattuta attraverso la creazione e la negoziazione del linguaggio: «I media trasformano le condizioni in cui noi umani arriviamo a interpretare, produrre e condividere significati. Al contempo, i media possono essere obbligati da specifiche forze sociali a stabilire strutture di potere».

I social media si basano fondamentalmente sull’idea che una visione individuale del mondo possa riconoscersi attraverso l’atto di far circolare informazioni e pensieri, in un modo che non è più in grado di operare una distinzione tra contenuto privato e contenuto pubblico.

Il momento in cui il mondo era diviso tra online e offline è ormai sepolto nel passato: il teorico dei media italiano Giovanni Boccia Artieri (Università di Urbino) sostiene che «ci troviamo di fronte a un insieme di occasioni in cui gli individui “giocano” con forme di auto-rappresentazione, grazie alla diffusione delle tecnologie di riproduzione e produzione nella vita quotidiana, dalle fotocamere digitali ai software di editing multimediale». Le forme mediali risultanti sono molto vicine a quelle prodotte dai media di massa e tale scenario è rafforzato da una crescente “disintermediazione” (la rimozione degli intermediari in una determinata filiera), riscontrata sia nel mercato che nel costrutto individuale della realtà.

Nel suo intervento a “Digital Hermits”, la prima Digitization Conference a Cluj (qui il reportage), un giovane YouTuber ungherese, Tamás Trunk, spiegava quanto rapidamente un teenager possa lanciare una propria carriera da influencer, semplicemente supportando il giusto prodotto nel giusto momento. Perché le comunità virtuali sono già pronte a essere coinvolte in un’attitudine comune al marketing o nella condivisione delle idee.

E tuttavia, il focus di Silver Surfer si posiziona sulla controversa duplicità tra presenza virtuale e reale, osservando il modo in cui certe naturali dinamiche di interazione siano oggi incapsulate in una forma di “digital milieu”, nella quale ciascuno deve dimostrare il proprio livello di connessione, per ergersi a testimone di un’era che sta cambiando.

Lo spettacolo è un generoso mix di vivacità e humour, il gruppo di teenager è molto efficace nel presentare diversi approcci allo storytelling. Cantando dal vivo, gli attori offrono un raffinato linguaggio del corpo e un accurato lavoro sulle espressioni facciali che diventano estremamente importanti nel modo in cui consegnano e condividono con lo spettatore ciò che un testo così fluviale non potrebbe, specialmente quando il coro parla all’unisono, ammiccando al “dramma didattico” di Brecht e, al contempo, ritraendo gli effetti del pensiero unico.

Le relazioni one-to-one (tra nativi o con gli «instaGrans») possono in effetti offrire un buon modello di coinvolgimento politico, che è l’altro “buco nero” del proliferare delle culture digitali: l’assenza di una reale attitudine politica, la fine di ciò che Jürgen Habermas chiamava “agire comunicativo”. Esso era storicamente fondato sul linguaggio e sulla possibilità di formulare un’argomentazione, il più deliberata possibile ma in grado di lasciarsi contestare o screditare.

Per riconquistare ciò che Habermas aveva prefigurato, il filosofo tedesco Byung-Chul Han propone la ricerca di un’alternativa, una “razionalità digitale” che proviene da una scoperta cruciale: lo “sciame digitale” non è una massa, piuttosto un aggregato di ego individuali non organizzato in un costrutto politico.

In quanto abitanti di diverse aree della stessa gigantesca comunità virtuale, il nostro stesso immaginario sta venendo rimpiazzato da una bacheca di slogan e tag, una formula semantica che dà agli utenti l’impressione di far parte della stessa famiglia di friends e follower che consuma e condivide le stesse forme simboliche, «pubblici interconnessi» (Diana Boyd) e produttivi che riconoscono se stessi negli stessi processi nascosti.

Mentre i social media si confermano come le più avanzate “macchine di significato”, dove la reazione di un utente può disciplinare, al contempo, l’accuratezza di una pubblicità e la rilevanza di una notizia, stiamo tutti a “messaggiare”, “snapchattare”, “skyppare”, “instagrammare”, “postare”, “twittare”. Tutti termini che meno di vent’anni fa non avevano senso e che adesso sono inclusi in ogni dizionario, almeno nel nostro scintillante mondo occidentale. A risultare interessante in Silver Surfer è il modo in cui la sua energia pone le basi per una nuova forma di critica, perché una chiara divisione tra “apocalittici” e “integrati” (come Uberto Eco aveva definito le due attitudini nei confronti delle nuove tecnologie) non esiste più.

Così, l’idea di invitare membri della generazione dei Veterani e della Generazione Z a maneggiare lo stesso vocabolario e a fondare insieme un linguaggio comune è una via di fuga intelligente per acquisire consapevolezza vivendo un’esperienza in tempo reale.

«Che cosa manca ancora una volta a un momento che deve essere adesso?» è l’ultima frase di un lungo “coro dei giovani”. Facebook ci suggerisce di ripostare il “ricordo” di un tempo in cui non eravamo ancora sposati o ancora in attesa della nostra prima figlia, e improvvisamente il passato diviene un revenant; il futuro appare dietro la maschera di “eventi” ai quali essere interessati, senza necessariamente presentarci. Tra post, videochat, incontri virtuali e storie di Instagram che spariscono 24 ore dopo, questo è lo scenario: una condizione in cui il presente è l’unico tempo.

In fondo, il teatro è una delle ultime occasioni per riunirsi nella stessa stanza, in mezzo a persone sconosciute, e occupare insieme un tempo e uno spazio che appartengono e sono negoziati da una comunità reale. La stessa che, nel bar del Volx/Margareten, ha condiviso un bicchiere e brindato al meraviglioso sforzo di questo gruppo di appartenenti alla generazione della gioiosa consapevolezza.