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Cartoline da Vienna…
immersa nel Serbischer November

Camminare per le strade di Vienna nel tardo novembre è come aggirarsi in una enorme gioielleria. Con la complicità delle luci natalizie, ogni angolo brilla di luce, scolpendo la forma di una peculiare esperienza di attraversamento urbano in cui il più piccolo dettaglio sembra essere messo in scena meticolosamente.

Scene from 'Katzelmacher'. Photo © Andrej Jovanović / Narodno pozorište Pirot
Scene from ‘Katzelmacher’. Photo © Andrej Jovanović / Narodno pozorište Pirot

E tuttavia, prima di diventare una delle più stimolanti e vibranti metropoli europee, Vienna ear il centro di un ampio impero, reso unico dalla sua sorprendente varietà di culture e incroci etnici. Se proprio queste caratteristiche giocarono un ruolo nella caduta dell’impero, di certo prepararono il terreno per una stupefacente eredità culturale. Oggi la capitale austriaca dedica una vetrina alla parte serba di quell’eredità, che negli anni è rimasta attiva e rilevante nell’Europa centrale e, in generale, nella cultura occidentale.

Il festival Serbian November è stato organizzato nel contesto dell’Anno Culturale Austiaco-Serbo, in sinergia con il Volkstheater di Vienna, che ha offerto due spazi, la sala principale e il Margareten.

Branislav Nušić era l’autore di Pokojnik (Il defunto), una classica commedia datata 1937 messa ins scena dal giovane regista Igor Vuk Torbica, prodotta dal Yugoslav Drama Theatre con membri della Facoltà di Arte Drammatica di Belgrado, dove Torbica si è formato. Ritornato inaspettatamente in vita, il defunto menzionato nel titolo non trova celebrazioni, ma una faida tra i membri della famiglia, che si sono spartiti la sua eredità calpestando ogni regola di rispetto. Sull’enorme palco del Volkstheater, la struttura visiva e testuale ci riporta a un immaginario classico dei primi del Novecento, nonostante la vicenda sia ambientata nei tardi anni Settanta, gettando luce sull’approccio comunista alla creazione di una selezionata classe dirigente durante la dittatura di Tito. Un ritmo alto e un ottimo affiatamento tra i giovani attori portano il regista a riempire la tessitura della recitazione e del movimento scenico con forse troppi trucchi che solleticano la risata del pubblico, rendendo il sottotesto politico difficile da seguire, quanto meno per chi debba appoggiarsi ai sovratitoli. Il risultato è un pezzo di macchineria teatrale ben congegnato, che raccoglie un grande applauso – in particolare dagli spettatori di lingua serba – senza tuttavia riuscire a superare le barriere della lingua e allontanando dal pubblico non serbo la comprensione completa della trama storica, di certo centrale in simili operazioni critiche.

L’altra produzione che il gruppo YJOL ha visitato è stata invece in grado di portare a termine tre diversi, e altrettanto importanti, compiti: rappresentare un esempio attendibile delle attuali tendenze teatrali in Serbia; offrire un’immagine del contrasto tra culture della ex-Jugoslavia e dell’Europa centrale; discutere i temi dell’immigrazione e dell’integrazione, così urgenti dell’attuale discorso politico internazionale.

La nuova produzione del Katzelmacher (Žabar in serbo) di Rainer Werner Fassbinder firmata da  Bojana Lazić scorre come un fiume impetuoso attraverso questi temi contemporanei, poggiando su una scenografia semplice ma ingegnosa e su un gruppo di performer forti e trascinanti. Il piccolo spazio, disegnato da un perimetro di tende nere, è interamente riempito di vecchie poltrone, allineate a fronteggiare gli spettatori.

Marie, Helga, Rosy, Gunda, Paul e Eric sono la quintessenza delle esclusive bande di periferia di una metropoli contemporanea: sporchi, lascivi, pigri e totalmente chiusi a ogni contatto con “l’altro”. Lavorano insieme in una fabbrica della Germania rurale al servizio di un’arcigna titolare, Elizabeth, una donna segaligna con capelli elettrizzati e movimenti da marionetta. Una tale squallida quotidianità, profondamente radicata in una xenofobia genetica e apparentemente impossibile da perturbare, trova il proprio elemento di rottura in Jorgos, un nuovo lavorante giunto dalla Grecia. Pur se ignorante, appena in grado di articolare una frase e inizialmente aperto alla manipolazione da parte del gruppo, Jorgos impara ad approfittare di una sua particolare caratteristica: essere superdotato.

Come in molti film e commedie di Fassbinder, la tensione sessuale è un catalizzatore della rappresentazione e fraintendimento sociale e, infine, una chiave per il successo. La lingua della pièce è frammentata, essiccata, cruda, ironicamente artificiale; le battute sono continuamente interrotte da improvvisi movimenti e pose sessuali che danno forma a un’intricata rete di allusioni.  Lazić manda i corpi in orbita in un costante ingranaggio di cambiamento di posti e ripetizione di atti – gli attori si alternano nel prendere birre da un frigo e suonare canzoni da una radio – creando una rappresentazione dei rituali depravati dell’intolleranza contemporanea.

Il pubblico spia le attività di questo assurdo formicaio di degrado, passando dall’essere spettatore all’essere un complice inconsapevole. E questo si rivela un modo vincente di ritrarre la responsabilità della gente comune non solo nella discriminazione degli stranieri, ma anche nel tenersi lontani dalla costruzione di un ambiente democratico. In altre parole, la violenza genera violenza, e il linciaggio orgiastico che mette fine a questo apologo è persino più raggelante perché non è sufficiente a toglierci il ghigno dalla faccia.

 

Published on 2 December 2015 (Article originally written in Italian)