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Digital Hermits

© Valik Chernetskyi

“Eremiti Digitali”. Suona come un ossimoro. Perché, al giorno d’oggi, nessuno potrebbe considerarsi un “eremita” nel regno digitale. Siamo sempre tracciati, braccati, catturati da complessi sistemi di calcolo che hanno il compito di definirci sulla base di ciò che apprezziamo, ciò che cerchiamo, ciò che desidereremmo essere, piuttosto che ciò che siamo.

Digitisation I: Digital Hermits è stato il titolo di una densa e interessante conferenza, la prima di quattro: organizzata a Cluj-Napoca (Romania) nel contesto di Digital Natives, un progetto collettivo tra cinque teatri membri dell’Unione dei teatri d’Europa – Volkstheater Wien, Comédie de Reims, Hungarian Theatre a Cluj, Schauspiel Köln e National Theatre of Northern Greece.

Concord Floral di Jordan Tannahill (che ha debuttato alla Schauspiel Köln il 16 Novembre) è «uno spettacolo che parla dell’identità dei giovani e delle loro interazioni, del potere della percezione e della tecnologia». Ciascuno dei cinque teatri coinvolti produrrà uno spettacolo teatrale o userà le tematiche dello spettacolo come base per un calendario di workshop con giovani attori non ancora professionisti. Una serie di “esperimenti digitali” saranno il risultato di questa collaborazione e, nel corso del progetto, saranno organizzate altre tre conferenze.

Durante l’edizione 2018 dell’Interferences Festival, prodotto dal Teatro Nazionale Ungherese a Cluj, a tre relatori è stato chiesto di condividere il proprio pensiero sull’essere parte di questo “nuovo” fermento digitale: Mária Bernschütz, Tamás Trunk e Valér Veres. Tre contributi molto diversi, in grado di disegnare un’immagine variegata dei numerosi approcci alle culture digitali.

Tutti conosciamo il giorno in cui siamo nati, non ci sono dubbi. Tuttavia, siamo sicuri di conoscere il nostro ruolo nella società digitale? Quanto attentamente stiamo osservando la rivoluzione digitale, quanto siamo al corrente della nostra influenza nel dar forma a un modello condiviso del nostro “vivere nell’era digitale”?

Mária Bernschütz ha presentato un sunto efficace di quali siano le generazioni coinvolte nel processo di digitalizzazione. Basato sulla cosiddetta “teoria generazionale” – inaugurata da due studiosi americani, William Strauss e Neil Howe – l’intervento di Bernschütz’s ha cercato di inscrivere la nostra agency in cinque categorie, attraverso le quali dovremmo essere in grado di localizzare la nostra presenza nel processo di sviluppo della cultura digitale.

Bernschütz è professore associato al Dipartimento di Management e Business Economics (Budapest University of Technology and Economic), insegna marketing media e metodologia della ricerca. Il suo vivace intervento mirava a mostrare il modo in cui la tecnologia influenzi la vita quotidiana degli individui. Scusandosi del suo essere costretta a generalizzare, Mária Bernschütz presenta una sorta di schema razionalista, che rivela la modalità in cui il progresso tecnologico potrebbe essere scelto come termometro per misurare il gap generazionale, in base alle fasce d’età.

«Sapete a quale generazione appartenete?», questa la domanda di base dell’indagine, basata su una approfondita ricerca qualitativa condotta sulla società ungherese.

Stando ai risultati, i «Veterani» sono quelli nati prima del 1946; i «baby boomers» quelli arrivati dopo la Seconda Guerra Mondiale, i più coinvolti nella ricostruzione del mondo dopo quel disastroso evento; vengono reputati «i più tecnofobici». La Generazione X – comparsa tra il 1965 e il 1979 – viene considerata quella degli «immigrati digitali»: sono entrati in contatto con la tecnologia quando erano già adulti. La Generazione Y raccoglie i nati tra il 1980 e il 1995, che frequentavano il liceo o l’università quando si sono accorti dei “nuovi media”; oggi sono piuttosto a proprio agio con smartphone e tablet. I membri della Generazione Z sono nati tra il 1996 e il 2000: ormai non usano quasi più penne e matite, Internet è stato parte della loro vita quotidiana fin dall’inizio. L’ultima è la Generazione Alfa – che comprende quelli nati dopo il 2010 – già incaricata di insegnare ai genitori come vedersela con la tecnologia.

Bernschütz parla di «compiti» e «vantaggi», che sembrano essere due categorie fondamentali per distinguere le nostre attitudini pubbliche e private nei confronti della tecnologia dalla nostra disponibilità a esserne parte.

Al di là di ogni possibile generalizzazione, la realtà sembra essere molto più complicata: viene a noi tutti rivolta una sorta di “chiamata collettiva”: ciascuno porta con sé una peculiare responsabilità nel tradurre i propri valori culturali in dichiarazioni esaustive, pensate e veicolate da strumenti tecnologici. Un ottimo esempio lo suggerisce il modo in cui vengono oggi comunicate oggi le arti performative, nel contesto della cosiddetta “società dell’informazione”. Da un lato, la buona salute del sistema teatrale può essere valutata dalla sua capacità di ingaggiare i pubblici e di attrarre nuovi frequentatori del teatro; dall’altro, sarebbe davvero arduo separare le comunità virtuali da quelle fisiche che, comunque, danno prova di essere vive e tenaci. Sottolineano la precisa essenza della teatralità, il fatto che artisti e spettatori condividono lo stesso spazio nel medesimo tempo.

Il discorso di Mária Bernschütz, per quanto originato da un campione di ricerca molto specifico, si è rivelato cruciale nel raccogliere una visione imparziale di come le diverse generazioni di “utenti” si rapportano all’ambiente digitale: e tuttavia a ciascuno dei presenti era chiesto di condurre approfondimenti personali, tentando di posizionare se stesso in questa o quella generazione, diventando parte di una sorta di “senso comune” della partecipazione.

Se la Generazione X è stata etichettata come «molto entusiasta», responsabile di aver dato vita alla «rivoluzione» e capaci di rifiutare le «regole astringenti all’interno del proprio spazio di lavoro», i membri dela Generazione Y tendono a «non rispettare il linguaggio pregiudiziale del leader» e non sono sempre in grado di «trovare ciò che stanno cercando», di localizzare i propri valori, di stabilire connessioni con altri colleghi e di «comprendere come si possa davvero essere “disconnessi”». Pretendono fiducia e, in questa ricerca, sperimentano una sorta di ansia.

I membri della Generazione Z sono già molto più «orientati al denaro», perché sono «nati dopo il tramonto della crisi globale». E, ormai, a loro interessa solo avere successo.

Non è così facile comprendere a quale generazione apparteniamo, fino a che un ragazzo, un onesto cittadino del “reame Z”, guadagna il palco.

Quando afferra il microfono, Tamás Trunk somiglia in tutto e per tutto a un “sacerdote” della Generazione Z. Parla un ottimo inglese, sfoderando un chiaro e appuntito accento americano; maneggia un telecomando mostrandoci una breve ma efficace carrellata di slide sul grande schermo che gli si stagli alle spalle; non ha neppure bisogno di guardarlo, ma lo maneggia magnificamente. Il suo tono è colloquiale, rapido, porta note acute, è ritmato e accattivante. Tamás Trunk è appassionato di sneakers e di cultura giovane, è uno “YouTuber professionista”. Di fatto è un “influencer”, e tale appare, anche se quel giorno non indossa scarpe da ginnastica, ma piuttosto un outfit alla moda ed elegante, scarpe con i lacci sotto a un grande sorriso.

Si rivolge ai «grandi», come se volesse marcare una distanza; lui è cresciuto «globalmente e digitalmente», la sua generazione è stata la prima «completamente connessa». La più immediata impressione, sostiene, è che la Generazione Z possa «consumare, bere e mangiare lo stesso cibo e le stesse bevande e usare gli stessi prodotti in tutto il mondo».

È questo che significa essere connessi? Siamo davvero tutti uguali? Ci somigliamo davvero tutti?

«No, questo non significa che siamo tutti uguali – spiega Trunk – Siamo probabilmente la più variegata delle generazioni. E, sì, ci piace mostrarlo».

Nella mappa raffigurata da Tamás Trunk, il mondo digitale rappresenta innanzitutto un’opportunità di connettersi uno con l’altra. Ma la caratteristica più evidente è che questa connessione è garantita dalla scelta di “essere o non essere” affiliati a questo o a quel brand.

Se i pionieri dei Media Studies o degli Internet Studies avevano tracciato una linea tra il mondo online e il mondo offline, sappiamo tutti che quel confine è svanito molto presto. L’avvento dei social media, integrato con la comunicazione in mobilità, ha portato il reame online direttamente nel palmo della nostra mano, e siamo diventati sempre di più dipendenti dall’interfaccia, per interagire con la nostra realtà quotidiana.

L’immediatezza ha abbracciato l’ipermediazione e la combinazione delle due ha generato, gradualmente, nuovi strati di realtà: l’hardware e il software hanno giocato insieme nell’offrire agli utenti una nuova forma di esperienza virtuale che è ormai impossibile distinguere. Come scrivevano Bolter e Grusin nel loro seminale saggio Remediation, oggi æl’ipermediazione digitale va in cerca del reale moltiplicando la mediazione, in modo da creare un senso di completezza, una saturazione dell’esperienza che possa essere scambiata per realtà».

Nell’intervento di Trunk, quella realtà sembra prendere forma sull’opportunità di diventare parte di una rete. Eppure è sorprendente come, nella sua visione, questa rete sia essenzialmente basata su logiche di mercato, sull’atto del comprare e del vendere, del pubblicizzare e del brandizzare. «Brand» è infatti una delle parole usate più spesso nel discorso di questo giovane speaker.

Una delle slide mostra una foto di un gruppo di hippy degli anni Settanta. Stando a chi la presenta, questo è un simbolo di rivoluzione, al quale egli contrappone un atteggiamento contemporaneo: «A volte sento dire che la mia generazione non vuole più ribellarsi, che vogliamo essere tutti uno uguale all’altra, e scorrere insieme alla corrente. La verità è che, in questo mondo digitale, il nostro ribellarci si riferisce a cose diverse, tanto meno usa gli stessi simboli, come alcol e droga». I brand e la moda sembrano offrire un nuovo modo di provocare un’attenzione sociale e di promuovere «uguaglianza ed equo trattamento per tutti noi».

L’entusiasmo di Trunk è contagioso, e tuttavia sembra inchinarsi irresistibilmente all’altare del Mercato, intendendo Internet e i social media come un modo per costruire una sorta di network di consumatori. «I brand vogliono che acquistiamo i loro prodotti e a noi queste aziende piacciono». Apparentemente, i simboli di questo «gigantesco mondo dei consumatori» assicurano un senso di appartenenza alle generazioni dei più giovani. «Insieme – dice Trunk – abbiamo la possibilità di lavorare molto e di creare ‘movimenti’ stupefacenti e progetti che sentiamo essere davvero nostri».

Così, questi “nativi digitali” hanno bisogno di un certo tipo di «movimenti» e di brand per comporre «una stupefacente comunità», in grado di attivare un enorme «mercato secondario», dove ragazzi e ragazze molto giovani possono avviare il proprio business e, rivendendo oggetti per «prezzi molto più alti», fare un sacco di soldi. Stiamo improvvisamente parlando di milioni di dollari.

Molti di questi giovani non entrano in contatto uno con l’altra nella vita reale, eppure, secondo Trunk, «il mondo online è l’estensione del mondo reale».

Per il momento delle domande, moderato da Gergő Mostis del Kreatív Kolozsvár, viene invitato al tavolo anche il sociologo Valér Veres. È l’occasione giusta per riconnettere l’accurata “ricerca generazionale” condotto da Mária Bernschütz con l’appassionato storytelling di Tamás Trunk, che in qualche modo ha presentato uno studio di caso sulla propria generazione.

Nel suo libro The Virtual Communities (1993), Howard Rheingold pensa al cyberspazio «come a una coltura batterica sociale, la Rete è l’agar, e le comunità virtuali sono colonie di microrganismi che crescono spontaneamente in laboratorio».

La descrizione metaforica di Rheingold trova riscontro quando si guarda all’architettura tecnologica e retorica dei social network. Fondati su una selezione individuale di dati da scrivere e leggere, rappresentano quegli strumenti complessi incaricati di gestire un ampio spettro di «informazioni come oggetti culturali e sociali». E tuttavia, lo sviluppo del citizen journalism, della net-art e dell’attivismo online ha dimostrato quanto solide possano essere queste connessioni tra gli utenti.

Mária Bernschütz ha riassunto in maniera esaustiva come il gap generazionale sia ancora presente; d’altronde, però, il progresso tecnologico è un processo che non possiede memoria e che tende a cancellare il passato. In un paio di decennio, il cosiddetto «mondo» (perché questo termine andrebbe sempre misurato al netto di un digital divide ancora molto presente) sarà popolato da diverse generazioni che intratterranno la stessa relazione con le tecnologia.

Il linguaggio, così diverso, di intervento in intervento, nei suoi riferimenti, ha disegnato un immaginario sfuggente. In un mondo digitalizzato, fatto di legami deboli, il linguaggio e le modalità di interazione dovrebbero essere considerati come una tecnologia di espansione della mente; i media digitali andrebbero dunque osservati come il supporto fisico per l’esportazione del linguaggio. Nelle parole di Derrick DeKerckhove, in un sistema di competenze interconnesso e composito, «più il discorso si decentralizza, più profondo è il mutamento nelle definizioni e nelle relazioni convenzionali».

E questo potrebbe rivelarsi un buon punto di partenza da cui cominciare a comporre una nuova visione del «mondo». Un mondo definito da connessione e relazione, nel quale, davvero, nessuno potrebbe considerarsi un “eremita”.

 

Published on 16 January 2019