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Arte, Economia, Europa.
Strategie contro la distopia

Nella maestosa sala del Mosteiro de São Bento da Vitória di Porto, il Teatro Nacional São João (TNSJ) e l’Union des Théâtres de l’Europe (UTE) hanno convocato una tavola rotonda sul tema “Economia, Arte ed Europa”.
Nel contesto del progetto triennale Conflict Zones, la conferenza – inserita nel programma laterale all’Assemblea Generale dell’UTE ospitata dal TNSJ – si è svolta alla presenza dei rappresentanti di tutti e diciotto i teatri membri, divenendo un’occasione per stagliare su un panorama internazionale una riflessione che sempre di più ha dimostrato la propria urgenza.

A disegnare un tracciato di discussione complesso e multiforme è stata la composizione del tavolo dei relatori, esponenti di aree di lavoro diverse ma complementari. Il ricercatore Tomáš Sedláček (Repubblica Ceca) è innanzitutto un uomo di scienza; l’ala artistica è rappresentata dal direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa Sergio Escobar (Italia) e il direttore artistico del TNSJ Nuno Carinhas (Portogallo); la politica dal sindaco di Porto Rui Moreira. A moderare l’incontro, il presidente del consiglio di amministrazione del TNSJ Francisca Carneiro Fernandes.

Quando si cerca di stabilire una connessione tra i tre temi, una risposta immediata viene dal fatto che Economia e Arti sono sempre state strettamente legate una all’altra, con le vite degli artisti date in pasto a ricchi mecenati, l’intera espressione artistica alla mercé di fondi pubblici o privati, o il cartello dei collezionisti a regnare su questa o quella moda nelle arti visive. Una delle domande proposte da una conferenza come questa potrebbe facilmente essere: che tipo di influenza può derivare dall’Europa in quanto ambiente politico e socio-economico?

Nelle parole di Francisca Carneiro Fernandes, e di tutti e tre gli speaker, “Europa” è quasi sempre accompagnata da locuzioni come “in crisi”, “in difficoltà”, “minacciata”, e la maggiore domanda è piuttosto in che modo la cultura possa o no trasformarsi in una mano d’aiuto nei confronti di questo scenario.
Il saggista e docente ceco Tomáš Sedláček, autore del bestseller Economia del bene e del male, è acclamato come uno delle voci più rivoluzionarie nell’economia contemporanea, in particolare per via delle sue idee sulla “economia come fenomeno culturale”. Lungi dal considerare mercati azionari e indici come un mero sistema di addizione di numeri, la concezione di Sedláček promuove una riconcettualizzazione dell’intera ratio della macro-economia, portando a un reame in cui l’economia è un fattore endemico delle società, strettamente legato alla produzione collettiva di miti, religioni e filosofie.

LA MANO INVISIBILE DELLA SOCIETÀ

Mostrando un atteggiamento fondamentalmente positivo, Tomáš Sedláček ammette che certi “meccanismi regolatori” possono non essere perfetti – ancora incapaci di evitare spargimenti di sangue e guerre – ma stanno di fatto garantendo una situazione stabile. E tuttavia, secondo questa visione, la relativa stabilità della società non è regolata dalla “mano invisbile” dell’economia: quella presunta eminenza grigia, silente, è in realtà il risultato di una complessa rete di interazioni materiali, è un prodotto della nostra cultura. La società stessa reagisce quasi spontaneamente a certe derive dell’economia, dando vita a “una generazione di hippies” che contrasta un’economia troppo orientata al profitto o a un Kafka che si ergeva contro la fascinazione eccessiva dell’Impero Austroungarico nei confronti della burocrazia.
Un altro chiaro esempio arriva dalla patria di Sedláček, con quella “Rivoluzione di Velluto” in cui le arti hanno salvato la politica dal collasso totale.
La chiave per questo misterioso equilibrio sembra dunque stare nella consapevolezza di tali interconnessioni tra le aree, che rispondono una all’altra seguendo un fermento sotterraneo di processo azione-reazione. L’economista ceco localizza il cuore di questo fermento nei movimenti culturali, affermando che il ruolo effettivo di intellettuali e pensatori è di “mantenere puliti per la comunicazione questi canali”.
“La civiltà europea/americana è basata su democrazia e capitalismo – continua Sedláček – due cose che, così ci hanno insegnato, dovrebbero procedere insieme. Eppure il mondo occidentale è riuscito a esportare il capitalismo ma non la democrazia”. Questo finisce per rappresentare un enorme fallimento. Come persino Karl Marx avrebbe sostenuto, “il capitalismo è la macchina più efficace per rendere ricca una nazione”, ma il mero atto di esportare il capitalismo non è sufficiente per portare ricchezza e può essere estremamente pericoloso quando non viaggia con il “manuale” della democrazia.

LA RELIGIONE DELL’ECONOMIA

Non ci si dovrebbe fidare di una definizione totalmente determinista dell’economia come un “campo orientato a una scienza-fisica tecnico-analitica”, mentre è di fatto “una ideologia coperta da un travestimento matematico”. Tali ideologie finiscono per definire autonomamente il bene e il male di certi atteggiamenti nelle politiche amministrative e di governo.
Un chiaro esempio portato da Sedláček è la corruzione, storicamente etichettata come una cattiva pratica perché direttamente associata all’atto del rubare. Oggi, invece, occorre un’argomentazione di carattere economico per definirla sbagliata. Questo erché – e questo è un altro degli enunciati fondamentali del libro di Sedláček – gran parte delle nostre valutazioni riguardo ai fenomeni economici si rapporta alla crescita del PIL.
Piuttosto evidentemente il più grave rischio è di usare la crescita del PIL come metro di giudizio per ogni manifestazione socio-culturale. Come sottolinea il relatore, le arti non hanno mai ricevuto l’incarico di accelerare l’economia di una nazione, ma piuttosto di rallentare il ritmo di una società forzata dal profitto e di offrire alle persone la straordinaria opportunità di una pausa, uno iato dove favorire il germogliare di pensiero e conoscenza, di emozioni e comprensione.
In altre parole, mentre il Prodotto Interno Lordo misura la crescita o il declino materiali, le arti e la cultura segnano il passo di una fioritura spirituale. Di fatto, l’esplosione di regimi totalitari e antidemocratici così come presagito dalla letteratura distopica ha trovato le proprie radici nella messa al bando di arti e cultura, che devono essere considerate come un barometro dell’integrità delle società. Una funzione molto difficile da visualizzare, perché l’arte in qualche modo rifugge fugge la responsabilità di essere direttamente utile. E tuttavia possiede l’innata capacità di produrre significato, quando rapportata alle effettive aspettative di crescita dei singoli individui e, di conseguenza, delle strutture sociali da essi composte.
Secondo Sedláček il punto è che viviamo in un mondo totalmente basato sull’atto del produrre. Niente intorno a noi può essere chiamato “naturale”, tutto è “artificiale”, tutto costruito da esseri umani: persino la possibilità di viaggiare è sottoposta a processi materiali artificiali (tecnologia e regolamenti sull’identità). “Il nostro lavoro – sostiene Sedláček – non è mai compiuto, continua a crescere e crescere senza mai raggiungere un apice”. Trovando una propria via attraverso una tale reazione a catena di implementazione della realtà, l’arte può divenire una sorta di sirena che annuncia un cessate il fuoco.

RIBALTAMENTO SOGGETTO-OGGETTO

Per spiegare questo processo si giunge a un esempio di mitologia contemporanea. Nel Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien, Mordor, il malvagio, ha creato l’anello instillando in esso “talmente tanto potere che la sua distruzione porta a distruzione Mordor stesso”. Questo è più o meno quel che accade con l’economia, investita di così tanta influenza da diventare il nostro maestro, un travestimento non visibile (e molto spesso inconscio) che ha la capacità di distruggere la nostra reale azione e percezione della vita quotidiana. Come dire che “il Signore degli Anelli è l’anello stesso”. In questo senso, è cruciale riporre fede e, più importante, attenzione su quelle cose che possono contrastare e bilanciare questo potere assoluto: in una crisi come quella che abbiamo attraversato nel 2008 e 2009, “se un certo aiuto non fosse arrivato dall’area della politica, la finanza avrebbe distrutto la nostra civiltà, proprio perché su essa era basata”.

POLITICA E MANAGEMENT CULTURALE

Dopo una tale prolifica introduzione teorica, è forse interessante comparare i contributi del sindaco di Porto, Rui Moreira da un lato e quello del direttore di un teatro nazionale come il Piccolo di Milano, Sergio Escobar, dall’altro, per comprendere alcune strategie portate avanti da due attori fondamentali di questo scenario.
Escobar introduce il concetto di “improbabile” per focalizzarsi sul ruolo delle arti. Citando il compositore, scrittore e organizzatore francese Pierre Boulez: “La cultura è quell’attività umana che rende inevitabile ciò che è altamente improbabile”. Secondo Escobar, una risposta al ritornello secondo cui “l’arte è inutile” è che “i criteri di inutilità sono autoreferenziali rispetto all’economia”, mentre il ruolo della cultura è esattamente quello di porre in crisi certezze e conoscenze stabili, “che sono in grado di congelare il probabile”. Era Edgar Morin a dire: “L’inaspettato è possibile, la metamorfosi è possibile. La speranza è il possibile, non il certo”.
Sembra che la cultura fosse al centro del progetto del sindaco Moreira al momento della sua corsa alle elezioni del 2012, ed è suo interesse sottolineare come le finanze siano cresciute nel corso del suo mandato, non senza portare a termine certi importanti compiti come la creazione del Teatro Municipale Rivoli, un teatro per e della città.
Nella prospettiva politica di Moreira, la cultura deve essere messa a fianco a due altri obiettivi: economia e coesione sociale, in grado di “liberare il genio dalla lampada e portare a una rinascita della città”. La chiave sembra essere in un fondamentale cambio di atteggiamento, dall’essere meri “spettatori” a diventare “attori del cambiamento”, non seguendo scopi individuali, ma piuttosto agendo come un collettivo, come una comunità di individui. Se Moreira dice che “la città stessa può essere un’attrice”, Escobar parla di “sensibilità dei cittadini”, una categoria molto sottile di cui prendersi cura.

Per entrambi i relatori, e in riferimento al discorso di Sedláček, la questione della burocrazia è di certo cruciale, perché tutte le democrazie contemporanee stanno attraversando tempi difficili in termini di funzionalità delle istituzioni e una profonda crisi della politica rappresentativa, due temi responsabili nella civica applicazione di una coscienza culturale.
Escobar non crede che la causa degli errori dell’Unione Europea sia nella burocrazia, piuttosto in una sorta di chiusura nei confronti delle relazioni internazionali, che ha prodotto “paura, poi egoismo, poi nazionalismo”, una situazione che si riflette anche sulle politiche interne e in particolare nel management culturale.
Moreira ancora vede nella burocrazia una barriera nei confronti di una percezione sana e corretta della democrazia, e sostiene che una migliore comprensione dell’attuale ambiente comunicativo e mediatico possa essere una chiave per almeno localizzare il centro del problema. “Con la fine delle forme tradizionali di comunicazione (giornali, TV, radio) e l’avvento dei social networks, stiamo andando in contro alla disinformazione. Usando dispositivi che possono eseguire tutto quel che vogliamo esattamente nel modo in cui ce lo aspettiamo, non abbiamo più bisogno di democrazia rappresentativa”. E qui sta l’ostacolo più pericoloso alla coesione sociale.
“La cultura dunque andrà a sostituire ciò che ci viene servito attraverso i media e l’informazione”. Moreira sottolinea come l’Europa, non importa che cosa dica il PIL, possa ancora vantare un primato nella produzione e nell’eredità culturali: un atto collettivo di preservazione dovrebbe essere il punto di partenza per provare al resto del mondo che questo primato non proviene da una falsa percezione.

IL TEATRO È UN’ARTE DEL TEMPO, METTIAMOCI AL LAVORO!

Se prima “il business del business era il business”, stando a Tomáš Sedláček il ruolo dell’economia sta cambiando. Se si vuole vendere birra, un birrificio non sarà mai sufficiente: il business di un birrificio è piuttosto quello di “coltivare la cultura della birra”. La cultura è libera di produrre bellezza e ricchezza per l’anima quando ci si rende conto che è innanzitutto un atto di coltivazione.
La voce posata e discreta di Nuno Carinhas porta con sé una grande vena di passione, che in qualche modo si occupa di introdurre la sua ultima produzione de Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, quando presenta il teatro come “uno spazio per il movimento libero delle idee e dei significati delle persone”, “un gusto democratico per la condivisione in opposizione alla rappresentazione alla moda di una unanimità di gusto”.
Dunque, il teatro può diventare uno strumento utile contro la memoria negata, per organizzare una più consapevole idea del futuro. Ma, in quanto “arte del tempo”, deve rappresentare la possibilità per un cambio di passo, un momento di riflessione che inietti un tempo differente in una tale vorace vita quotidiana, improntata alla rapidità. “Quando il mondo non è altro che silenzio, ci saranno narrazioni per un ascolto clandestino”, ma abbiamo bisogno di svegliare il nostro tempo necessario, uno speciale momentum interamente dedicato all’ascolto, invece di una forsennata ricerca di una perenne connessione virtuale.
In una società filtrata dai media, Carinhas invita tutti a ricordarsi dell’Europa dei Trattati di Roma, firmati 60 anni fa, “prima della paura” e della diffidenza dell’altro.
Si potrebbe commentare che guardare al passato come a un’epoca scevra di paure è pericoloso, che grande tensione c’è stata anche alla vigilia dei natali dell’Europa. Ma il discorso di Carinhas si spinge oltre, alla ricerca di un modello contemporaneo basato innanzitutto sulla potenza della libertà di espressione, proprio in questi mesi più recenti minacciata da certe politiche repressive.
“La mia Europa – sostiene – è l’Europa degli autori, perché è attraverso di essi che si può percepire il tempo presente. E, allora, come possiamo accettare che gli autori vengano ancora censurati e perseguitati oggi in Europa? Come possiamo ammettere che l’altro, il diverso, lo straniero siano messi in questione e negati? Sappiamo che la negazione ci perseguiterà nei tempi a venire come una labirintica rete di muri supportata dalla compiacenza dei cinici. Dunque mettiamoci al lavoro: l’Europa è un terreno favorevole per costruire comunione e usura, fanatismo e libertà di pensiero, distruzione e rimorso, retorica populista e indignazione poetica. Dovremo trovare il modo di vivere insieme prima che una serie di collassi non ci sconfigga”.

 

 

Published on 13 December 2016 (Article originally written in Italian)