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LA MASTERCLASS ISO A SOFIA.
UNA GENETICA DELLA VERITÀ

Il palco è buio, silenzioso, vuoto. Una figura indistinguibile (Nadia Keranova) è ferma contro il fondale tinto di blu. Un piede nudo, l’altro che indossa una scarpa da trekking fuori misura, cammina verso il centro, sotto un controluce ambra, poi un suono esplode e lei cade a terra sull’angolo destro. Tira fuori un piccolo specchio dalla tasca e, con movimenti incredibilmente lenti, incastra lo specchio tra i lacci della scarpa: che sorpresa vederci dentro la propria immagine…

Nel contesto della Small Season 2016 al Teatro Laboratorio Sfumato di Sofia, Bulgaria, Margarita Mladenova e Ivan Dobchev hanno diretto una masterclass di quattro giorni con otto membri dell’International Super Objective (ISO) Theatre, un gruppo di giovani attori europei da nove diversi paesi sviluppato nel contesto della UTE Decentralized Academy nel 2012.

Nella visione di Mladenova e Dobchev, aiutati nella traduzione dall’ottimo lavoro di interpretariato di Sava Dragunchev, “l’idea è di andare a resuscitare l’umano, il suo essere unico e personale e dare così forma al suo monologo”. Petya Alabozova, Sophie Lewisch, Aglaia Katsiki, Benjamin-Lew Klon, Luís Puto, Angélique Zaini, Bilyana Georgieva e Boris Krastev si sono uniti a Ivan Barnev, Hristo Petkov, Boyko Krastanov, Catalin Stareishinska e Nadia Keranova (tutti bulgari) lavorando ciascuno su un estratto del testo del 1972 di Samuel Beckett, Non io.

Le indicazioni dell’autore fissano un unico faro sulla bocca di un’attrice, “circa due metri sopra il palco”, e un secondo personaggio chiamato Uditore, che esegue movimenti “di debole compassione”. Nell’idea dei due direttori, il ruolo di Bocca è interpretato dagli attori in tredici monologhi di cinque minuti che seguono la stessa struttura. Una luce blu sul muro di fondo, un riflettore centrale: quando gli attori raggiungono il centro, un suono lancinante li sbatte a terra nel buio. Il suono di una campana li rianima e li obbliga a pronunciare il testo, in qualche modo contro la loro stessa volontà. Bocca non è dunque un vero e proprio personaggio, piuttosto una presenza esterna, “una ragazzina che parla da un altro mondo”, come se stesse sussurrando le battute all’orecchio degli attori.

Il discorso è frammentato e meccanico, le pause e la punteggiatura quasi senza senso. La pausa, l’intervallo tra un pensiero e l’altro, in quello iato sta la vera essenza della scrittura di Beckett. “Parlate ma non sapete come, non è un processo fisico – dice Dobchev mentre fuma una sigaretta nel buio della prima fila – vi sentite esausti, come se qualcosa di misterioso vi fosse accaduto e vi avesse sbattuto a terra. E ora lentamente vi svegliate”.
Con il titolo Second Hand, la masterclass ha accompagnato il gruppo attraverso una sessione iniziale di lavoro di improvvisazione, da usare poi per dare forma al senso (o al non senso) del testo. Nei primi due giorni, gli attori sono stati anche invitati a scegliere i loro costumi e oggetti, appunto, “di seconda mano”, precedentemente usati in altre produzioni di Sfumato.

Se mescolati con la scrittura dell’autore irlandese, soprabiti strappati, pantaloni sformati, cappelli da mendicante, ombrelli rotti e bastoni da passeggio sembrano così “beckettiani”, nel modo in cui suggeriscono un immaginario post-umano. Eppure, la rotta di questo lavoro punta piuttosto a una condizione “pre-umana”, una sorta di archeologia biblica che prova a investigare il peccato originale da una prospettiva sartriana: tutti siamo stati condannati alla nascita, e vivere non è che un modo per sopravvivere a questa pesante incombenza.

Dobchev parla della parola di Dio e del suo “inesplicabile miracolo, puro, fin dal primo momento”, parla del “bisogno di amore”; ma anche di Prometeo e del suo tentativo di replicare il sacro fuoco, di dar vita alla vita, di imitare gli dei.
Benjamin cammina e danza sui tacchi alti, cade sul pavimento aprendo le gambe di fronte al pubblico: consegna le proprie battute assumendo la posizione di una donna partoriente. “Ogni parola deve essere una sorpresa per voi”, insistono Dobchev e Mladenova. Di fatto, le corde vocali degli attori sono trasformate in un mero strumento alla mercé della volontà di qualcuno (o qualcosa) di altro.
La chiave dell’attore per una simile parola primordiale sta nel tenersi completamente distaccato dall’idea di impersonare un personaggio, usando piuttosto il corpo e la voce come strumenti che amplificano quella parola nelle orecchie degli spettatori.

Non c’è bisogno di essere esperti di teatro o di letteratura: leggere Samuel Beckett significa ingaggiare un conflitto senza fine, trovarsi di fronte a un castello fatto di dubbi e senza vie d’accesso: “Questa voce femminile che udite nella vostra mente – dice Mladenova – potrebbe essere il vostro tentativo di decifrare un codice e trovare il vostro posto. È l’esperienza di ogni essere umano che prova a trovare il proprio posto”.
Imprigionati come sono nel loro piccolo spazio al centro del palco, gli attori hanno trovato il modo per essere potenti, appoggiandosi su un lavoro fisico molto accurato e originale che marca le peculiarità di un ricco mazzo di stili e di formazioni.
“Non abbiamo memoria della nostra nascita perché i nostri occhi non potevano vedere”, suggeriscono i direttori. Questa idea, associata alla straordinaria capacità delle parole di Beckett di guadagnare un secondo, un terzo e un ennesimo significato, garantisce una varietà di immagini e di atteggiamenti, dalla rabbia alla sensualità, dal borbottio infantile alla danza dinoccolata, dai toni lirici ai grugniti bestiali. In una simile giungla di linguaggi, Dobchev e Mladenova invitano gli attori a fuggire ogni ricerca psicologica, indicando piuttosto quanti più riferimenti e metafore possibili, incoraggiano nuovi approcci associando ogni frae a un’esperienza fisica, come: “Ti stai avvicinando a questa verità, ma questa verità è bollente come una stufa; quando la raggiungi, ti brucia le dita”.

Così, secondo Dobchev, “discorso significa verità; quando parli, stai cercando di rendere reali le cose, parli con lo scopo di verbalizzare. La verità serve alla salvezza, non alla consolazione, perché Beckett non è un moralista, prova pietà dell’umanità. Con questa sorta di cadavere che parla noi intendiamo raggiungere la verità, questa è l’avventura. Raggiungere ‘il paese da cui nessun visitatore ritorna’, come dice Amleto”.
Guardandoli lavorare, il sentimento più evidente è la solitudine. Nondimeno Non io propone anche un secondo personaggio accanto a Bocca: l’Uditore. Nella visione dei due registi bulgari, l’Uditore deve essere essere visto come un simbolo degli spettatori. I piedi nudi sotto a un lungo mantello nero, Boris Krastev marca una presenza silenziosa e costante sul palco, ascoltando e al contempo provocando il discorso. Giudicando con il suo sguardo cieco (indossa occhiali con le lenti rosse), l’Uditore è la personificazione del pubblico, “sta per l’ascoltatore moltiplicato”.
A quale domanda presta ascolto? La domanda principale di Beckett, ma anche di ogni altra forma di teatro: chi siamo? Sotto la pressione delle luci, del suono della campana, del tempo ristretto e dell’Uditore, il performer di turno sembra in cerca di una via personale per rivolgere quella domanda, confrontandosi con un senso di panico, o con la minaccia di una punizione sconosciuta, o con una sofferenza interna, nella paradossale situazione in cui né il dolore né la felicità si possono percepire, perché private alla base del proprio significato. Non è un viaggio verso la conoscenza del personaggio, ma verso l’opportunità per un attore di negoziare una personale posizione nei confronti della voce che colpisce i sensi di un misterioso personaggio (Bocca), che abita una dimensione di poco distante.

È difficile trovare una risposta quando le domande non sono visibili. “Fate in modo di essere degli esploratori – suggeriscono i registi – degli scienziati. Fate in modo di gettare un occhio in un microscopio e accettare di osservare una misteriosa creatura morire”. In un simile distacco è racchiuda la natura basilare del recitare, sperimentare la sensazione di essere qualcun altro, di vivere la vita di qualcun altro. “Si tratta di avvicinarsi sempre di più a un grido che non uscirà mai. Perché per gridare bisogna essere vivi. E voi non lo siete”.
Così, l’unica via possibile per tirare fuori un qualche senso è scendere sempre più a fondo nella vera e propria essenza di ogni parola, per svelare lo strato più intimo, quello che risuona nei più interni e comuni impulsi. È una ricerca di umanità, quel terreno di base sul quale ogni anima scivola, nel viaggio verso la consapevolezza.

 

Published on 3 July 2016 (Article originally written in Italian)