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HARBOUR40. SUL MOLO DELL’EUROPA

Nel contesto dell’11esimo Short Theatre Festival di Roma, quattro dei cinque drammaturghi coinvolti nel progetto Harbour40 dell’UTE sono stati invitati a leggere estratti dai propri nuovi testi, incentrati sul porto e sulle persone a esso associate. Qui un breve report di un simile evento multi-lingua e multi-culturale.

 

È vero, la letteratura teatrale non ha mai smesso di evolversi. L’arte di scrivere per la scena ha, di paese in paese, una rilevanza diversa, figlia della tradizione e insieme del continuo muoversi dei confini culturali, del ribollire delle tematiche, dell’emergere di urgenze sempre nuove, in un mondo che muta. Perché a cambiare è certo la parola con le proprie grammatica, sintassi e semantica, ma è ancor prima l’immaginario. Come se – di era in era e di latitudine in latitudine – il bisogno di rappresentare e di rappresentarsi necessitasse di una struttura mai troppo rigida, sempre pronta a rivalutare la presenza viva dello spettatore come cellula ingovernabile in un processo organico.
Ed è così che le grafie si macchiano di specificità temporali e territoriali, così che nascono i “classici”, così che un testo risulta ora “datato” ora “fuori contesto” oppure “rivoluzionario” o “calzante”. La gran parte di queste dinamiche muta nel momento in cui si sovverte il paradigma dello “scrittore solitario”.

Harbour40 è il titolo di un progetto sviluppato attraverso un calendario di incontri e di think tank svoltosi nel contesto di Conflict Zones / Zones de Conflit a Roma e Vienna. Drammaturghi da Bulgaria (Stefan Ivanov), Grecia (Angeliki Darlasi), Italia (Roberto Scarpetti), Palestina (Amir Nizar Zuabi) e Siria (Ibrahim Amir) hanno discusso brucianti questioni globali e il modo in cui esse si relazionano alle loro società. Il brainstorming ha fatto emergere l’idea di scrivere in maniera collettiva, provando, d’altra parte, a non abbandonare le specificità fondamentali associate a ciascuno scenario politico e culturale.
Con il supporto tecnico del Teatro di Roma e grazie a un’entusiasta partecipazione dello staff di Short Theatre – festival diretto dal regista italiano Fabrizio Arcuri dal 2006 – il primo risultato di Harbour40 è stata una lettura pubblica a La Pelanda, un ex mattatoio riconvertito in centro culturale a Roma. Gli estratti presentati da Angeliki Darlasi, Stefan Ivanov, Roberto Scarpetti e Amir Nizar Zuabi, per quanto letti in cinque diverse lingue, hanno molti punti in comune e un’immagine condivisa: il porto, immaginato come “non luogo” in cui le persone partono, ritornano, si incontrano e si scambiano beni e parole, come dire vite e destini. I passi successivi del progetto vorrebbero raccogliere i testi e mescolarli tra loro in una struttura complessiva, lasciando che la storia voli da Jaffa al Pireo, da Genova al Mar Nero, ma anche sui mercati del deserto siriano, sulla Turchia e sulla Tunisia.

Su un palco spoglio, i quattro autori siedono su un divano nero sotto una luce soffusa; attraversando una lieve nebbia, ciascuno di loro si alterna ai microfoni posti sul proscenio. Quando uno di loro poggia le pagine sul leggio e comincia a leggere, è come essere lasciati soli in un mondo sconosciuto. Ivanov sussurra le sue battute in bulgaro mantenendo il corpo perfettamente fermo, i sopratitoli scorrono sullo schermo e raccontano di un nipote e di un nonno, parlano del canale che collega Sofia al Mar Nero e che è costato 22mila morti tra i prigionieri del Gulag.
Nel frammento di Darlasi, Iliana cammina avanti e indietro su una banchina del Pireo, aspettando qualcuno; Natasha sta pescando. La tragedia dei rifugiati viene raccontata dal punto di vista dei passeggeri, mentre la sorte rimane incerta anche quando la barca tocca terra e una vita può cambiare in modi imprevedibili e dolorosi.
Il monologo di Scarpetti è il resoconto di un viaggio a Genova, dove un ragazzo tunisino viene mandato dalla famiglia per vendere la casa di uno zio morto che aveva lasciato la Tunisia molti anni prima: l’infernale burocrazia italiana lo ingoierà, ridimensionando le aspettative su una fortuna da andare a cercarsi nel paese straniero in cui molti compatrioti amerebbero fuggire.
Nizar Zuabi immagina il colloquio tra diversi ufficiali dell’autorità portuale con Miss Queen, che è in cerca del padre scomparso. Oltre l’ostruzionismo e il sospetto di un intenzionale codice del silenzio, il padre stesso appare come una sorta di visione shakespeariana, sussurrando in arabo alcuni raggelanti dettagli sul suo – probabilmente mortale – viaggio.

Più di ogni altra forma di scrittura, un testo teatrale permette ai personaggi di parlare con la propria voce e il compito principale di un drammaturgo dovrebbe infatti essere quello di fronteggiare i fatti reali, portando in superficie i sentimenti interni.
Subito prima della lettura il Festival ha organizzato un incontro pubblico tenuto dal giornalista Graziano Graziani, in cui i quattro autori hanno seduto accanto ad alcuni colleghi italiani e francesi (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri, Lorenzo Garozzo, Alessandra Di Lernia and Sonia Chiambretto), membri di Fabulamundi Playwriting Europe, un programma di networking indirizzato alla traduzione e alla diffusione della drammaturgia. La discussione si è focalizzata sulla questione del linguaggio e su quale pubblico un drammaturgo possa (o debba) fantasticare. Pur perseguendo approcci molto diversi, la quasi totalità degli scrittori non vuole immaginare uno spettatore ideale, in modo da non sentirsi troppo al sicuro e piuttosto trascinando il pubblico in un reame instabile quanto le questioni contemporanee che discute.

Rivolgendo domande agli spettatori di Harbour40, i feedback più forti sono stati ovviamente sulle tematiche, su quanto l’Europa e il Mediterraneo rispecchino le contraddizioni socio-politiche attuali. Ma per questo progetto è importante anche prendere nota di certi altri commenti, che hanno espresso quanto affascinante fosse ascoltare un testo multi-lingua senza la mediazione degli attori, piuttosto fronteggiando la stessa presenza dell’autore. Anche poiché il pubblico era largamente composto da professionisti del campo, una gran parte dell’attenzione si è posizionata sul corpo, su come l’assenza di una messinscena abbia portato la reale essenza delle parole (con le loro peculiarità linguistiche e di pronuncia) a sovrastare a ogni forma di interpretazione teatrale. Così, l’immobilità ferma e insieme gentile di Ivanov si è confrontata con una più animata e “recitata” performance di Nizar Zuabi, derivanti da diversi vissuti professionali ma anche da specificità in termini di linguaggio e di espressività.
Se da un lato il termine “collettivo” indica qualcosa che viene realizzato insieme, le sue radici scendono fino all’atto del “collezionare”, come dire afferrare pezzi e frammenti di identità, presentandoli di fronte a un pubblico attivo e diversificato, che dà forma a una miriade di, sia personali che universali, significati.

 

Published on 22 September 2016 (Article originally written in Italian)